Pubblicata su Il Mondo Tre. Rivista di teoria
delle scienze umane e sociali Anno III N. 1-2 ; Aprile Agosto
1996, pp 493 - 496.
Benedict Anderson, Comunità
immaginate , Origine e diffusione dei nazionalismi,prefazione
di Marco d'Eramo, Manifesto Libri, 1996 (Imagined Communities
Reflections on the Origins of Nationalism 1991,1983, London,
Verso).
Comunità immaginate è un piccolo e prezioso
libro, un classico sulla questione nazionalismo. Fin dalla
sua prima edizione (1983) non ha smesso di suscitare un certo
rumore intorno a sé, occupando un posto d'onore nelle
bibliografie internazionali sull'argomento. Esce finalmente
in traduzione italiana nella versione della seconda edizione
del '91, arricchito da una nuova prefazione dell'autore e,
nella sola versione italiana, da un saggio in appendice pubblicato
originariamente nel '92 sulla New Left Review: "Il nuovo
disordine mondiale".
Alla domanda: "Cos’è una nazione?",
la risposta di Anderson è allo stesso tempo semplice
e carica di implicazioni teoretiche che conducono a una sorta
di rivoluzione copernicana nel considerare tutta la questione
.
Ecco la sua sintetica definizione di una nazione, di tutte
le nazioni: «una comunità politica immaginata,
e immaginata come intrinsecamente insieme limitata e sovrana»
(25) Immaginata poiché non succederà mai che
tutti i suoi membri si conoscano personalmente; il contenuto
del loro legame, dato il loro numero e l'estensione territoriale
della nazione stessa, è necessariamente immaginato,
non prodotto da relazioni concrete, a differenza di quanto
si suppone accadere in un modello astratto di società
tradizionale, in cui le relazioni faccia-a-faccia risultano
prevalenti; limitata, perché la nazione è sempre
immaginata con dei confini, al di là dei quali vi sono
altre nazioni; sovrana, perché il concetto si maturò
in epoca illuminista in cui la libertà è stata
considerata un grande ideale; infine comunità poiché,
malgrado le disuguaglianze e gli sfruttamenti che avvengono
al suo interno, la nazione viene vissuta sempre in un clima
affettivo informato da un "profondo e orizzontale cameratismo".
Ma ciò che stupisce è che rispetto ad altre
versioni di ismi, quelli costruiti intorno al concetto di
nazione hanno dimostrato una vitalità e una trasportabilità
eccezionale nel corso degli ultimi 200 anni.
Non a caso la riflessione di Anderson prende le mosse da un
preciso problema o, per meglio dire, imbarazzo storico interno
al pensiero marxista, rappresentato dalle guerre d'Indocina
tra Cambogia, Vietnam e Cina del '78 '79. Popoli rivoluzionari,
socialisti teoricamente legati all'internazionalismo proletario,
che si fronteggiavano armati in nome della difesa nazionale.
Proprio partendo dalla debolezza dimostrata dalle analisi
che riconducono il fenomeno nazionalismo a una sorta di ideologia
politica o a un qualche tipo di "falsa coscienza",
riduzionismo che d'altra parte il marxismo condivide con il
liberalismo, Anderson propone una prospettiva per certi versi
opposta per riuscire a comprendere la fortuna inarrestabile
di questa particolare invenzione sociale.
Il termini di "nazione", "nazionalità",
"nazionalismo", afferma Anderson, non vanno equiparati
ad un ideologia, ma collocati su un altro livello di fenomeni
rispetto alla sfera politica; si tratta di particolari costrutti
culturali, al pari di categorie antropologiche del tipo della
"parentela" o della "religione", sistemi
complessi rispondenti a un insieme stratificato di bisogni
sociali e individuali.
E' proprio questa impostazione “culturalista”
a rendere il libro di Anderson particolarmente caro agli antropologi,
andando a ricostruire le radici storiche e mentali di questa
fondamentale invenzione che ha segnato e continua a segnare
l'organizzazione sociale umana.
Quando parliamo di nazione e dei suoi correlati, ci si riferisce
dunque a particolari creazioni culturali derivati da un incrocio
di forze storiche che vennero a maturazione verso la fine
del Diciottesimo secolo; una volta creati questi costrutti
culturali divennero "modulari": capaci di essere
trapiantati in una grande varietà di terreni sociali
e di emergere insieme ad un numero altrettanto vasto di costellazioni
ideologiche e politiche.
L'impostazione del lavoro di Anderson condivide una certa
aria di famiglia “analitica” con altri importanti
contributi sull'argomento, pubblicati, guarda un po', nello
stesso periodo della prima edizione di Imagined Communities.
Per citarne alcuni L'invenzione della tradizione di Hobsbawm
e Ranger (1983) e Nations and Nationalism di Gellner (1983).
Ma se è proprio sul concetto di invenzione che si incontrano
queste diverse impostazioni, è sulla prospettiva da
cui viene osservata l'invenzione stessa che si differenziano.
In particolare, mentre Gellner associa invenzione a fabbricazione
e falsità, collegandola più alla dimensione
politica e al nesso tra gruppo etnico e istituzione statale,
Anderson indaga la nazione come un prodotto innanzitutto culturale,
un processo creativo dell'immaginazione sociale umana. Lo
stesso titolo riflette questa sfumatura "non-decostruttiva",
ben resa nella traduzione italiana: comunità "immaginate"
e non "immaginarie".
La considerazione preliminare di Anderson è che qualsiasi
comunità più grande di un villaggio è
necessariamente "immaginata" ma « Le comunità
devono essere distinte non dalla loro falsità/genuinità
ma dallo stile in cui sono immaginate» (25).
Ma quali avvenimenti, quali trasformazioni hanno reso possibile
a un certo punto, nel corso della storia di immaginare un
nazione? Tre i motivi principali chiamati in causa.
Il declino della comunità religiosa nei suoi caratteri
ecumenici e cosmopoliti, per effetto delle scoperte geografiche
e la graduale volgarizzazione del latino, il linguaggio sacro
che la teneva insieme; dopo il medioevo l'inconscia coerenza
della religione cominciò seriamente ad entrare in crisi.
La seconda credenza che si avvio al tramonto era una certa
organizzazione della società incardinata intorno a
particolari centri superiori, cioè ai monarchi dei
regni dinastici.
La terza e ultima motivazione chiamata in
causa è una fondamentale trasformazione nella percezione
del tempo e in particolare l'emergere di una certa idea laica
della "simultaneità". Il tempo veniva vissuto
come ciò che Benjamin chiamava "tempo messianico",
una simultaneità di passato e futuro in un presente
istantaneo, un tempo in cui cosmologia e storia erano indistinguibili
e i segni dell'oggi vissuti come una trasfigurazione del passato
e viceversa. L'idea moderna del tempo era invece quella di
un tempo astratto, omogeneo, lineare: il tempo dell'orologio.
Di qui la possibilità di immaginarsi: « un organismo
sociologico che si muove ordinatamente in un tempo vuoto e
omogeneo» idea che ha «una precisa analogia con
l'idea di nazione , concepita anch'essa come una solida comunità
che si sposta giù o su lungo la storia» (42).
Le forme di rappresentazione moderne del romanzo e del giornale
derivano da questa nuova concezione della simultaneità
temporale. Una serie di personaggi e di avvenimenti che si
muovono e accadono sincronicamente in diverse zone dello spazio.
Questi tre cambiamenti condussero ad una ricerca per una nuova
modalità di legare fraternità, potere e tempo
insieme: il concetto di nazione, secondo Anderson, fu il distillato
che rispose efficacemente a questa esigenza: politica, sociale
ed esistenziale al tempo stesso.
Ma la ragione per cui l'esito di questa ricerca prese le forme
del nazionalismo come oggi lo conosciamo è dovuta a
un'interazione quasi casuale, ma esplosiva tra tre diversi
fattori : 1) l'affermarsi di un particolare sistema di produzione
e di relazioni di produzione (il capitalismo); 2) l'invenzione
di una tecnologia della comunicazione (la stampa) e, 3) la
fatalità della diversità linguistica umana.
Il latino, lo abbiamo già accennato, divenne una lingua
sempre più estranea al popolo, per effetto del ricercato
purismo ciceroniano degli umanisti, esauritosi il suo mercato
editoriale verso la fine del '600, l'industria del libro a
stampa cominciò a pubblicare libri nelle diverse lingue
volgari. Proprio la diffusione di questa produzione cominciò
a far nascere l'idea di una comunità di uguali, in
quanto parlanti la stessa lingua, fino al formarsi di campi
separati di comunicazione unificati da lingue particolari;
tali linguaggi vennero poi a fissarsi gradualmente in particolari
grammatiche e cominciarono ad essere insegnati.
Sulla base di questa armatura mentale entrano in gioco i diversi
stili con cui vennero ad immaginarsi le nuove comunità
nazionali, e sul terreno dello stile troviamo una prima coraggiosa
affermazione di Anderson, secondo il quale i primi nazionalismi
non furono europei ma americani: anzi creoli. Ma gli americani
"nazionalisti" non parlavano forse la stessa lingua
della madrepatria: spagnolo o inglese, e non professavano
la stessa religione?. Come venne ad affermarsi allora la coscienza
e l'immagine di essere qualcosa di diverso?
Utilizzando alcune idee dell'antropologo Victor Turner a proposito
del pellegrinaggio religioso (Dramas, Fields and Methaphor.
Symbolic Action in Human Society, 1974) Anderson conia l'originale
concetto di "pellegrinaggio laico", in particolare
si riferisce ai modelli di viaggio dei funzionari delle monarchie
assolute, "pellegrinaggi" a cui era legata la loro
carriera. I governatori creoli delle colonie, impediti per
nascita, nella loro ascesa sociale sia in senso verticale
che orizzontale, vennero così nei loro spostamenti
a formare gradualmente una coscienza di esclusione e di diversità
rispetto ai loro colleghi nella madrepatria, malgrado la comunanza
di lingua e religione.
Lo stile dei nazionalismi europei fu invece basato essenzialmente
sul linguaggio scritto a stampa nei diversi idiomi locale.
Il ruolo di questa tecnologia è importante, secondo
Anderson, anche per comprendere la formazione di una coscienza
di classe borghese nazionale europea. Se prima della stampa
le solidarietà sociali erano il frutto di rapporti
diretti di parentela o di clientelato, la borghesia fu la
prima classe a raggiungere una solidarietà su una base
essenzialmente immaginaria veicolata proprio dal capitalismo
a stampa.
L'emergere di questo nuovo immaginario popolare mise in allarme
i regnanti di mezza Europa che minacciati diedero luogo a
un particolare stile di nazionalismo: tipico di molte parti
d'Europa: il cosiddetto: ufficial-nazionalismo, una rincorsa
alla "naturalizzazione " delle dinastie europee,
che in un breve giro di anni trasformò: i Romanov in
Russi, gli Hohenzollern in tedeschi, i Savoia in italiani.
L'ultima ondata furono i nazionalismi dei paesi colonizzati;
il paradosso dell'ufficial-nazionalismo fu quello di trasportare
l'idea di "storia nazionale" nella coscienza del
colonizzato. Inoltre, questo risorgimento terzo mondista avvenne
in un periodo della storia del mondo in cui lo stato-nazione
era oramai divenuto una norma internazionale, fu possibile
quindi "modellare" la nazione in un modo più
consapevole di quanto fosse stato prima. In un interessante
capitolo Census, Map, e Museum, aggiunto alla seconda edizione,
Anderson ricostruisce come l'immaginazione dello stato coloniale
sui suoi dominì contribuì a costruire e a far
"immaginare" i caratteri specifici della comunità
nazionale nascente. Il censimento, ad esempio, creava "identità"
attraverso la mente classificatoria dello stato coloniale,
la finzione del censimento è che ognuno ha una sua
collocazione all'interno di esso, si crea una comunità
con un sua dimensione, un suo numero.
Anche la mappa funzionava
come un tipo particolare di classificazione, disegnandola
sembrava dimostrare la "naturalità" di specifiche
suddivisioni territoriali, venne infatti spesso utilizzata
dai movimenti nazionali come un logo, un simbolo immediatamente
riconoscibile. Il museo d'altra parte creava e conservava
una tradizione, rivolta e conclusa nel passato nella mente
degli eccentrici studiosi coloniali, materializzata nel presente
dai nuovi patrioti.
Al di là dell'erudizione che Anderson dimostra nel
corso del volume in particolare sui movimenti nazionali asiatici,
il tema più ricorrente del libro è che il nazionalismo
in un modo o nell'altro fu la risposta ai molteplici problemi
posti dell'ordine sociale moderno. La debolezza di altri tipi
d'analisi sta proprio nella loro incapacità a comprendere
il nazionalismo come istituto complessivo, in particolare
di non considerare la sua dimensione sacra; per la nazione
si è disposti a morire, ricorda spesso Anderson, il
suo immaginario è quello di una collettività
immortale che affonda le sue radici all'inizio della storia.
Il sacro è ritenuto quindi una costante della vita
sociale umana e il mondo moderno non fa eccezione, la sua
novità consiste soltanto nel fatto che la forma nazionale
assume essenzialmente un carattere secolare. Se il sacro e
il secolare potrebbero apparire due ordini antitetici, Anderson
dimostra come si intersecano nei simboli chiave della nazione:
es. la tomba del milite ignoto. In questo istituto, che non
ha uguali in altre forme di culto degli antenati, l'intimità
personale si incrocia con l'anonimato della vita moderna.
Questa connivenza tra nazionale e del religioso, mette in
discussione una certa idea della modernità: oltre la
gabbia d'acciaio della burocrazia di Max Weber, l'ordine sociale
moderno riuscì a produrre un rincantamento a sé
specifico : la nazione.
Vincenzo Bitti
Pubblicata ,in Il Mondo Tre. Rivista d teoria delle scienze
umane sociali Anno III N. 1-2 ; Aprile Agosto 1996, pp 493
- 496.
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